Cumbia People
Il mio primo (e unico) approccio con la psicanalisi è stato quando avevo 24 anni. Vivevo, da sola, a Parigi (a circa 10 000 km da casa), lavoravo 12 ore al giorno e mi sentivo soffocare. Ero convinta che il problema era il lavoro: ne avevo troppo.
Così ho cercato una psicanalista, ho preso appuntamento e ci sono andata.
Io: - "Non ho tempo per niente! Ho troppo lavoro!"
Lei: - "E se avessi più tempo a disposizione, cosa faresti?"
Mi ha gelata. Le ho dato 50 euro (una piccola fortuna per me, all’epoca) e me ne sono andata. Quella semplice domanda mi aveva fatto capire che il problema non era il lavoro, ero io. Io e il vuoto della mia vita, dopo aver spento il mio PC.
È stato un bello schiaffo, una doccia di fredda realtà, diciamo. Ma quello è stato per me anche un punto di partenza per la mia responsabilizzazione: sulle mie scelte, sulla mia quotidianità, sulla mia vita. Da lì ho cominciato a capire che tutti abbiamo lo stesso tempo materiale e ciò che conta è come decidiamo di utilizzarlo.
E ho capito anche quanto il valore che diamo al lavoro sia strettamente legato al valore che diamo al nostro tempo.
Qualche giorno fa (13 anni dopo la mia sessione psicanalitica), ho finito di leggere il libro Lavoro. Una storia culturale e sociale di James Suzman (https://www.ilsaggiatore.com/libro/lavoro), che mi ha fatto "esplodere" la testa (mindblow!). Il perché - insieme ad alcuni spunti, secondo me fondamentali - lo spiego qui sotto.
Suzman, che di mestiere fa l'antropologo, racconta, appoggiandosi a dati scientifici e fonti storiche diverse, la storia di come il lavoro sia nato e di come sia evoluto, fino a diventare quello che è oggi, cioè il modo in cui occupiamo la maggior parte del nostro tempo.
Inizia dai nostri antenati cacciatori-raccoglitori e ci spiega come il passaggio all’agricoltura e alla vita in società agricole abbia permesso la nascita delle città. Ci dice come nelle città - visto che le persone che non lavoravano i campi, si nutrivano di ciò che arrivava dei campi e delle colonie - siano nati nuovi mestieri e come la società andasse organizzandosi attorno a essi. Racconta come il lavoro sia diventato uno "status symbol", come sia diventato la base dell’identità delle persone, dal momento che, in base al lavoro svolto, una persona viveva in un certo posto, si vestiva in un certo modo, sviluppava certi gusti e si poteva permettere determinate cose.
Ci parla anche della Rivoluzione industriale, della nascita del binomio industria-pubblicità utile a creare sempre nuovi desideri, visto che i bisogni primari erano già soddisfatti. E di come il lavoro sia diventato il modo di soddisfare quei bisogni (teoricamente infiniti) e di come si sia trasformato in uno «snodo sociale che plasma le nostre ambizioni, i nostri valori e le nostre affiliazioni politiche».
Infine, analizza il fatto che oggi, in Paesi come il Regno Unito, circa l'83% dei lavoratori siano impiegati nel settore sei “servizi” (cioè tutto ciò che non contribuisce a produrre un oggetto materiale) e come questo: 1) sia una conseguenza abbastanza chiara dell’automazione sempre più predominante nelle nostre attività produttive e 2) sia il frutto dell’aumento esponenziale della burocrazia e dell’invenzione di mestieri fondamentalmente inutili (i “bullsht jobs”, secondo David Graeber) che hanno come unico scopo quello di occupare il tempo di chi li fa.
Diventa abbastanza logico che il 60% dei lavoratori non si senta coinvolto nell lavoro che fa (cumbiapeople.it), se questo lavoro non ha alcun senso.
Alla fine, quindi, - e torno all'inizio e alla mia seduta psicanalitica - è tutta una questione di tempo e del suo utilizzo. Chiediamocelo, una buona volta: cosa facciamo con il nostro tempo e cosa pensiamo sia giusto fare con il nostro tempo, secondo i nostri parametri sociali e culturali? Perché abbiamo cosi tanto bisogno di occuparci di cose spesso inutili o prive di senso?...
Come regalo (e mi spiace per lo spoiler), vi lascio l’ultimo brano del libro di Suzman, invitandovi a leggerlo (è lungo, intenso... ma molto illuminante):
«Lo scopo principale di questo libro, tuttavia, era quello di allentare la stretta dell'economia della scarsità sulla nostra vita lavorativa e, di conseguenza, ridimensionare la conseguente, insostenibile attenzione per la crescita economica. Comprendere come molti degli assunti fondamentali su cui poggiano le nostre istituzioni economiche siano in realtà semplici prodotti della rivoluzione agricola, amplificati dalla nostra migrazione nelle città, ci offre la libertà d'immaginare per noi stessi tutta una gamma di nuovi futuri possibili, e di raccogliere la sfida di far leva sulla nostra inesauribile energia, intenzionalità e creatività per plasmare il nostro destino».
E voi? Come decidete di utilizzare il vostro tempo?
P.S. Suzman ci dice anche che Keynes, purtroppo, ha sbagliato con la sua terra promessa economica. Era troppo ingenuo😉. Non aveva previsto la nascita della pubblicità né la capacità infinita dell'uomo di desiderare quello che non ha.
E così, come annunciato, sono pronta a dare il benvenuto ufficiale al nuovo nome di questo progetto. Cumbia. Cumbia people.
No, non facciamo corsi di danza, né organizziamo feste (almeno per ora, in futuro, chissà?) ma viviamo la vita e concepiamo il lavoro come esperienze in movimento, divertenti e sempre con una bella musica di sottofondo.
Che c’entra un progetto di consulenza aziendale, che ha come obbiettivo rivoluzionare il mondo del lavoro, con la cumbia?
Non c’entra niente e c’entra tutto. La cumbia, per quei pochi che non la conoscono, è una danza sudamericana che io stessa ballavo (e ballo ancora) nelle feste, in Uruguay, e che mi sono portata dietro, anzi dentro, nella mia vita di nomade (poco digitale, ma molto relazionale).
Cumbia, innanzi tutto, mi fa pensare a come le commemorazioni, la musica, i festeggiamenti, lo stare insieme siano importanti (anche e sopratutto nel mondo del lavoro) perché ci avvicinano e ci aiutano a far cadere i pregiudizi, a liberarci e a lasciar esprimere il nostro vero noi per aprirci agli altri. E questo tipo di trasparenza è uno dei pilastri fondamentali per creare relazioni forti e attuare un cambiamento duraturo. Di' sempre la verità e mostrati come sei! Evviva #cumbiapeople.
Cumbia, poi, mi ricorda anche che se vogliamo affrontare e risolvere le diverse e complesse sfide che abbiamo davanti, dobbiamo rompere i vecchi schemi, ripensare la creatività e imparare ad accogliere la diversità e farne una leva di crescita. Anche accettando che un'agenzia di consulenza si chiami "Cumbia" e ci insegni a ballare insieme! E sia #cumbiapeople.
Perché in azienda, così come nella cumbia, sebbene ognuno sia autonomo e possa esprimere il proprio stile, se vogliamo riuscire insieme, dobbiamo andare all'unisono, seguendo un ritmo definito e condiviso da tutti. E vai: #cumbiapeople.
Inoltre, mi viene da sorridere se penso a quante poche "probabilità" ci sono di chiamare Cumbia un percorso di consulenza aziendale... e mi sono accorta che queste probabilità sono pari a quelle che aveva una ragazza uruguaiana, laureata in Chimica, di lavorare nel settore dell'energia rinnovabile e Parigi per 15 anni; di incontrare un siciliano e di andare con lui a vivere nelle campagne modicane, per sviluppare il suo progetto, mentre coltiva il proprio orto. Probabilità vicine allo zero, ma possibili! E se è possibile, vale la pena provarci! Quindi #cumbiapeople
Infine. Cumbia, come detto, è una danza sudamericana. Rappresenta cioè le mie radici, la mia storia e una parte di quello che porto sempre con me e condivido con gli altri. E allora #cumbiapeople.
A proposito, qual è la tua Cumbia?
In questi tempi di tabù sui cambiamenti di identità, di genere, di colore... Radical cambia nome! Ma rimane comunque fedele alle sue radici, alla sua anima radicale, naturalmente. Niente compromessi su questo!
Cambio di nome: e come mai, vi starete chiedendo?
Risposta: non è una crisi di senso, ve l'assicuro.
Scopo, missione, valori, competenze, esperienze e la vasta rete di relazione e collaborazione rimangono. Ed è tanto, a pensarci.
Quindi, il cambiamento arriva dopo che dei colleghi mi hanno contattato per chiedermi di ripensare al nome del mio progetto, visto che i nomi dei nostri progetti si assomigliano molto e il loro marchio è, da qualche mese, registrato. E a me questa pare una pazzesca coincidenza: di tempistiche, di idee, di situazioni. Poco importano i dettagli ma, dopo ricerche e riflessioni sul vero senso di questo progetto e sul modo in cui voglio comportarmi, avendo come bussola i miei principi, tra cui c'è la ricerca della coerenza, ho deciso di accogliere questa richiesta come un'opportunità. Anzi, una serie di opportunità.
Innanzi tutto perché, ho pensato, non sarei coerente se facessi un'altra cosa, se cercassi uno scontro con delle persone con cui condivido visioni e buone intenzioni. Ovvio: tengo a Radical, ma il suo valore non sta nel nome che gli dò o gli darò. Meglio occupare il tempo a rivoluzionare il mondo del lavoro.
Poi perché ricercare un nome che riesca a rappresentare l’identità del progetto è una bella sfida che mi mette nelle condizioni di rileggere il percorso sotto altri punti di vista e riconnettermi alla sua essenza.
Inoltre, perché ho chiesto a tanti amici (vecchi e nuovi) e colleghi di aiutarmi e sin dall'inizio l’esperienza si è rivelata bellissima. Evviva la collaborazione! Boom! Sì, cambio nome alla mia impresa.
Infine: noto con piacere che siamo sempre più persone a voler avere un impatto pro-positivo nella società, agendo sul mondo del lavoro.
So long life to Radicals! Poco importa come si chiamino!
Da oggi parte la ricerca del nuovo nome. Keep tuned!
Cumbia non é sempre stato Cumbia, alla sua nascita si chiamava Radical.
In questo articolo spiegavo la storia dietro Radical. Nei prossimi articoli leggerete il motivo di questo cambiamento e l’essempio di come una difficoltà si puo trasformare in una opportunità!
La scelta di Radical, come nome del mio progetto, è diventata inevitabile dopo una serie di incontri con gli amici di Zero Comunicazione Integrata (https://www.spaziozero.info), che mi hanno aiutata a trovarla. Discutendo con loro, sul tavolo erano finiti diversi naming, ma solo uno alla fine tornava sempre: Radical.
Perché Radical, sin dall’inizio, mi ha fatto sorridere; perché il mio capo, ai tempi della Francia, mi ha sempre detto - quando affrontavamo tematiche sensibili e complesse sul devenire dell’azienda, sulle decisioni da prendere o su i rischi da assumere - «Iamena, ma tu sei troppo radicale...» e io non potevo negare che fosse vero.
Sì, Radical è un nome che mi mette di buon umore. Mi fa sorridere e mi riporta bei ricordi: quelli di una storia professionale vissuta a fianco di persone che hanno avuto fiducia in me, che mi hanno fatto conoscere la libertà, mi hanno aiutato a crescere e poi, non senza difficoltà, mi hanno lasciata andare.
E poi, Radical, a pensarci, riassume anche alcuni concetti che per me sono chiavi di volta e rappresentano il mio approccio e i miei riferimenti.
Per iniziare, il cambiamento non può che essere radicale. Oggi più che mai, abbiamo bisogno di un cambio di paradigma. Che vuol dire: ripensare tutto quello che diamo per scontato, e tutto quello che fa parte della nostra vita “da sempre”. E questo ripensamento non si può fare in superficie; va fatto in profondità, con il coraggio e la leggerezza di rimettersi in gioco e di mettere in discussione tutte (o alcune, almeno) le nostre certezze. Questo cambiamento inizia solo se prendiamo consapevolezza di noi stessi, se ci impegniamo a trovare il nostro senso, la nostra direzione, se scegliamo i giusti valori per guidarci, se ci ascoltiamo e proviamo a fare tesoro della nostra storia, delle nostre radici. Pronti a crearne di nuove, più forti: questa volta scelte accuratamente per costruire un futuro diverso, e migliore, per i nostri cuccioli.
Ma Radical parla anche di terra: cioè della necessità di rimanere sempre legati alla materia, alla concretezza. Radical implica una visione pragmatica del cambiamento: che parte dalla realtà, dei fatti e delle persone, dalle problematiche quotidiane, per trovare un modo diverso di fare ciò che sia più sostenibile e che riesca ad allineare - e accogliere - i bisogni di tutti.
Radical parla di piccoli passi di ogni giorno: i grandi discorsi, che hanno soltanto buone intenzioni e presentano visioni utopiche e dogmatiche sul cambiamento, non fanno per me. Sì, certamente sono ispiranti, possono dare entusiasmo, ma li trovo poco costruttivi. È questa distanza tra ideologizzazione e concretezza che, immagino, ci porta spesso a chiuderci in noi stessi o a fare gruppo solo con persone che la pensano come noi e che giudicano gli altri dall'alto di una saggezza autoreferenziale e di una spiritualità troppo esibita. Ma io credo che questa postura non sia quella necessaria al cambiamento. Queste posizioni, al contrario, rischiano solo di provocare nella società una frattura di cui non abbiamo bisogno. Io dico Radical, perché credo in un cambiamento concreto, sostenibile e duraturo, che parte dal basso, e dal piccolo, ma senza compromessi sugli obiettivi e i valori. Radicale.
Radical parla, naturalmente, anche delle radici. E dell’importanza di averle, riconoscerle, valorizzarle. Se un individuo ha radici forti, significa che è connesso con le sue origini, indipendentemente da dove si trovi a vivere, in un determinato periodo della sua vita. Avere radici è avere un posto dove tornare, un posto sicuro dove la rete è forte, solida e capace di accoglierci, sempre. Avere radici forti ci permette, prima, di stare in piedi e guardare avanti e, successivamente, di fare le scelte giuste per crescere e attraversare, con piccoli passi concreti, quello spazio che avevamo solo intravisto. Avere radici forti ci permette di volare alto e di rischiare perché, anche se poi si cade, non è grave: c'è una rete a sostenerci. Radicale.
Infine. Quando penso alle radici degli alberi, al modo in cui comunicano, e condividono, per la mutua crescita, mi viene facile lasciarmi ispirare, anche nella visione che ho del modo in cui dovremmo fare società e impresa. Cioè mettendo al centro non più la competizione tra gli individui - tra aziende che lavoranno nello stesso settore, per esempio - ma la collaborazione. Perché la crisi - culturale, climatica, economica, energetica - che stiamo affrontando oggi è davvero profonda e comporta sfide così complesse che nessun singolo può risolverle da sé. Radical è anche questo: fare rete tra le radici; mettere insieme; condividere sapere, tempo, energia; aprirsi agli altri. Sì: prendiamo gli alberi come esempio: mettiamo le nostre radici in connessione, condividiamo sentimenti, emozioni, esperienze, know how: forse avremo trovato un modo di far crescere boschi nuovi.
E allora: Radical. Perché questo è un tempo di nuove e forti visioni. Di valori concreti. Di voglia di fare qualcosa, passo dopo passo, insieme. Di abbandonare gli indugi e di non scendere a compromessi, su ciò che conta veramente. Il cambiamento è progressivo, profondo e tocca le radici. Ma non è più rinviabile.
Sii Radical anche tu, con me! Dai, salta!
Benvenuti!
Mi chiamo Iamena Crolla, sono nata e cresciuta a Montevideo, in Uruguay, dove i miei nonni italiani hanno scelto di emigrare dopo la seconda guerra mondiale.
Sono sposata con un siciliano (di Modica, la città dove vivo, perla del tardo barocco siciliano), abbiamo due figli di 6 e 8 anni, nati in Francia, e pure un cane di 10.
Mi piacciono le persone, le feste, viaggiare, cucinare, condividere, fare rete. Potrei anche definirmi agnostica ma ho tanta fiducia nell’uomo e nella nostra capacita di essere resilienti e di risolvere, insieme, problemi complessi come quelli che siamo chiamati ad affrontare oggi.
Credo nel futuro ma credo che il futuro non possa compiersi se non saremo capaci di anticiparlo, di cambiare, di evolvere; se non cominciamo a renderci conto che siamo responsabili di ciò che capita e che capiterà a noi e agli altri.
Dopo i miei studi in chimica in Uruguay, ho iniziato la mia carriera professionale a Parigi, in Akuo Energy, che nel 2007 era una startup con due collaboratori e oggi è un big player internazionale delle rinnovabili con 500 dipendenti e un fatturato annuo di circa 300 milioni di euro.
Per Akuo ho fatto un po’ di tutto: all’inizio gestivo progetti e investimenti in Spagna e in Italia; successivamente mi sono progressivamente specializzata nel "Procurement&Contracting", quindi in acquisti e contrattualizzazione per realizzare i progetti; negli ultimi anni della mia esperienza sono stata responsabile del team - di circa 60 professionalità, sparse per il mondo - dedicato alla "Strutturazione ed Esecuzione" ossia all’insieme dei processi che trasformano un progetto cantierabile in un progetto vendibile. Quella parigina è stata davvero la mia palestra emozionale e lavorativa: ho preso parte alla trasformazione di una piccola startup in una multinazionale, con tutte le gioie e tutte le difficoltà di un gruppo di 4 o 5 persone che diventa una grande azienda, in poco più di 10 anni.
Ed è sempre grazie al percorso dentro Akuo che mi sono avvicinata al mondo delle «progressive organizations». Ero, e sono, convinta che lavorare, fare le cose, prendere decisioni... si possa fare in un altro modo, diverso da quello standardizzato; che non servano i capi-controllori, che si possa essere molto più flessibili, veloci e soprattutto che ognuno di noi possa dare il meglio esprimendo i propri talenti e attingendo alle proprie conoscenze. Qual era il mio ruolo nell'azienda parigina? Assicurarmi che ogni mio collega fosse messo nelle condizioni di esprimere al meglio le proprie potenzialità.
Non avendo, non potendo avere, tutte le risposte per raggiungere quest'obiettivo, mi sono messa a studiare, a fare ricerca e, soprattutto, a esperimentare. E l’esperimento è stato un successo: grazie a una squadra coinvolta, performante, solidale, divertente e felice di lavorare con me. Ecco, è stato lì che ho capito quanto sia importante il ruolo del leader e di quanto conti darsi una struttura co-costruita, di avere una cultura lavorativa condivisa, di riconoscersi in valori e simboli forti, per avere una squadra forte e unita.
A conclusione di questi tre anni intensi e pieni (di lavoro e soddisfazioni), ho sentito di avere una decisione da prendere: continuare nella mia carriera o fermarmi e mettermi (finalmente) in ascolto di quella "vocina" interna che mi diceva che non ero allineata con me stessa e che per andare avanti avrei avuto bisogno di un cambio.
Un cambio di passo, di ambiente, di scopo, di mission. E alla fine ho deciso: all'inizio del 2020 (qualche mese prima che la pandemia precipitasse il mondo nel caos, quasi una conferma indiretta della bontà della mia scelta) ho lasciato il mio posto, la mia scrivania, il mio ruolo, i miei colleghi parigini, per traslocare nella campagna siciliana e ri-cominciare qui, da capo, a progettare. A immaginare, a pensare, a studiare a come contribuire da un posto diverso (from a different place?) - come consulente, formatrice, mamma e donna - al cambiamento di paradigma necessario per affrontare le sfide del mondo attuale e futuro.
Cosi ho iniziato a collaborare con Change Makers Factory, una comunità internazionale di persone di tutti i colori, sesso, età e provenienza che danno vita a nuove abitudini di pensare, lavorare e vivere e qualche mese fa ho creato Cumbia, free & performing people, il mio nuovo percorso lavorativo.
Entrambi sono due progetti in cui ripongo grandi speranze: hanno con uno scopo molto simile e una mission complementare.
Anche per questo sto sviluppando con la mia famiglia (mio marito Mario, Nina e Kalani, i miei figli, e Volcan, il mio cane) un posto nuovo, di vita e di condivisione, eco sostenibile, dove la bioedilizia, la permacultura, l’arte, il pensiero positivo e senza chiusure, il buon vino e il buon cibo, possano far incontrare le persone nella magia del sud est siciliano.
Mirando sempre alla coerenza e all’integrità, restando convintamente attaccata ai miei valori e tenendo sempre i piedi piantati a terra, sta prendendo vita, anche da queste pagine digitali, la mia mia nuova scelta "Cumbia". Sta prendendo il via una nuova, intrigante e coinvolgente avventura.
Ti va di fare un po' di strada insieme?